mercoledì 18 giugno 2008

Eutanasia ed accanimento terapeutico

Lo so, siamo tutti impegnati con gli esami e forse nessuno di noi ha la testa per affrontare questo dibattito ora; ma è proprio per questo che è il momento di parlarne: è proprio perchè non dimentichiamo che la nostra vita di futuri medici sarà scandita da mille impegni pressanti e contingenti, da tensioni accumulate, da momenti di stress forse anche molto peggiore dei giorni prima degli esami. Ma al centro della nostra vita ci saranno sempre i malati, persone sofferenti nel corpo e nello spirito che chiedono di essere curati, prima ancora che guariti; anche se spesso penseremo che i nostri problemi siano di ordine pratico-organizzativo, la realtà è che quotidianamente ci scontreremo con questioni decisamente più grandi: la morte, la sofferenza, la perdita degli affetti, la malattia come minaccia alla dignità della persona. Questioni alle quali dovremo saper fare fronte, con l'intima speranza di essere di aiuto al malato.

Scrive Pierre Mertens: "Consolare vuol dire non fuggire, restare con qualcuno a dispetto del disagio profondo che il dolore e la sofferenza dell'altro provocano in noi. Come terapeuta, io riconosco una cosa fondamentale: i momenti più intensi non sono quelli dove io mi presto alle interpretazioni, ma quelli in cui sono il testimone della sofferenza più profonda. Quando mi obbligo a restare. Perchè per chi soffre, il fatto di sentire che non è solo, in questi momenti di disperazione, apre le porte alla speranza, a una soluzione che può venire".
Ecco, credo che questa sia l'ottica in cui leggere questo dibattito: il medico non è il padrone della vita dei suoi malati, ma ha in mano le chiavi per modificare la "storia naturale" della loro sofferenza; spesso però il dolore, la disabilità, la sofferenza fisica e psicologica rendono la vita insopportabile. Come ci comporteremo di fronte a queste persone? Con quale coraggio diremo la nostra se non saremo stati profondi testimoni della loro sofferenza?
Come al solito, non voglio in questa sede esporre il mio punto di vista; l'unica cosa che voglio sottolineare è che saremo chiamati a vivere questi drammi in prima persona, e che le posizioni dogmatiche ed aprioristiche non hanno alcun valore se non sono accompagnate dal coerente impegno in prima persona all'"inclinazione" verso chi soffre.

10 commenti:

lele ha detto...

Ho vissuto da vicino la terapia del dolore.
Ricordo la riluttanza di mia madre, medico, nel dovere somministrare morfinici ad una persona terminale che li richiedeva disperatamente.

Per lei la medicina del dolore rappresentava la resa della medicina. La non medicina. Ricordo il suo tormento, la sua sofferenza.
Forse il problema nasceva da un forte coinvolgimento emotivo. Forse no, ancora oggi mi dice che la pensa così a riguardo.

Io, spero medico in futuro, mi auguro di non esitare di fronte alla possibilità di alleviare la sofferenza del malato. Spero e credo il mio approccio possa essere diverso.

Mi spiace per queste poche righe buttate giù in fretta, magari anche da parte mia c'è coinvolgimento e quindi l'esposizione è disordinata, ma il discorso è per me molto importante, andrebbe trattato più in generale ancora l'approccio del medico al farmaco, partendo dal banale antibiotico che a tutt'oggi molto spesso non viene prescritto quando dovrebbe perchè è meglio aspettare, vedere come va.. (cosa, poi??) e di contro magari si prescrive l'impiego di FANS che in fin dei conti non sono davvero risolutivi.

Davvero mi spiace per l'esposizione.. quando avrò un attimo di tempo ci tornerò su meglio.
Ciao ragazzi.

Anonimo ha detto...

Credo non esista una vera regola in questo campo, nessuno può dire ciò che veramente è "etico" o "giusto" quando si parla di vite degli altri.
Non è una laurea in medicina che ti dà il permesso di togliere una vita ad un'altra persona,ma inevitabilmente ti impone una responsabilizzazione,che và oltre ad ogni concetto di "linee guida".
Nelle mie ancora breve esperienze mi è capitato di assistere a due atteggiamenti opposti da parte dei familiari,primi interlocutori del medico:chi considerava il malato poco più di un peso di cui non poteva farsi carico,chi invece per motivi economico/affettivi non voleva rassegnarsi anche nonostante un'evidente sofferenza priva di speranze.Questo fà dei familiari un interlocutore non del tutto affidabile e complica il già complicato dilemma su a chi spetti la scelta.
A chi pensa che il medico non possa "arrogarsi" la possibilità di aiutare il paziente a morire con dignità voglio ricordare che la medicina ogni giorno si prende anche il diritto di sostituirsi alla natura strappando dalla morte spesso con eccessivo accanimento persone che non è in grado di restiture completamente alla vita,lasciandole schiave di macchinari che decidono quando respirare,far battere il cuore,nutrirsi,vivere.
Concludo senza alcuna pretesa di trovare delle risposte perchè mancano anche a me,ma con la volontà di cercarle sul campo,con l'esperienza,preparandomi a cambiare idea anche cento volte se necessario e cercando di non farmi influenzare da nessuna ideologia,se non quella di cercare di fare al meglio il mio lavoro e mettere la felicità del paziente al primo posto,che più che un dovere considero un privilegio.

Anonimo ha detto...

Personalmente valuto tale problema su due livelli differenti:

Uno generale, e l’altro personale.

Il primo dovrebbe rappresentare una sorta di bussola per orientarsi in un campo cosi difficile e delicato come il passaggio vita –morte. Ed a mio parere tale principio generale, incarnato e garantito dallo Stato, dovrebbe essere l’ incondizionata libertà di scelta. Infatti credo che solo con tale presupposto sia possibile raccogliere tutte le varie sfaccettature ed approcci al problema, non escludendone alcuni e quindi non escludendo nessuno.

Il secondo invece rappresenta l’unicità della storia vissuta. Ovvero l’uomo, la sua sofferenza, la sua vita, le sue idee, elementi che più di tutti devono essere considerati, perché espressione inequivocabili ed uniche di se stesso, e quindi, paradossalmente, parametri soggettivi della qualità della propria esistenza, della propria felicità.

Ed è da questi presupposti, a mio parere, che idealmente ‘nasce’ il comportamento del medico. Non detentore del sapere e quindi giudice ultimo secondo le proprie inclinazione, ma aiuto umano e supporto scientifico necessari a fornire gli elementi ai quali riferirsi per prendere una libera decisione. Per se stessi o per una persona amata.

Anonimo ha detto...

solo per consigliare un libro:
"Il diritto di morire" di Umberto Veronesi. un punto di vista lucido, quantomeno.

Poi vorrei aggiungere ancora due parole; tante volte ho incontrato la sofferenza umana e tante volte ho visto uomini e donne spegnersi nel letto di un ospedale, oppure uscire da quel letto per andare a morire "in camera caritatis" tra i propri cari. E di una cosa sono assolutamente certo: se è vero che l'approccio al momento della morte non è mai uguale, è sicuramente vero che un medico può e deve accompagnare il malato in questo momento. Principalmente con l'atto stupendo e culmine della nostra futura professione, che è quello del "prendersi cura"; e vi assicuro che non è facile, che si soffre e spesso si vorrebbe essere in un altro posto, perchè la sofferenza e la morte ci fanno sentire impotenti, ci fanno vergognare del nostro sopravvivere, della nostra libertà di lasciare da un momento all'altro il malato ed il suo dolore per ritornare alla nostra vita.
Credo che l'accanirsi nel tentativo di vincere l'ineluttabile, di opporre la scienza all'unica cosa certa della vita e della natura, sia semplicemente l'espressione di questo senso di impotenza; si potrebbe discutere a lungo sulle radici di questo sentimento, ma è certo che quando un medico si comporta così dimostra la sua intima debolezza, umana ma irrispettosa della sofferenza altrui.
Credo che "somministrare la Buona Morte", quando il malato lo richieda, sia anzitutto un atto di umiltà. E di carità. E di grande rispetto per il volere di chi è costretto ad una decisione così drastica, e certamente irrecuperabile.
Ecco, ci tenevo a contribuire al dibattito con la mia personalissima opinione, al di là di quello che scrivo nel post di presentazione.

Anonimo ha detto...

Non credo d'avere le conoscenze nè le esperienze adatte per discutere in maniera "scientifica" sull'eutanasia, non so nemmeno se ci sia un criterio per valutare quando un malato diventi irrecuperabile, destinato inesorabilmente a morire. Però sono assolutamente d'accordo con voi quando parlate, con la giusta cautela, di "ideologia" che inesorabilmente, come in altri campi, la si ritrova anche in questo. Ideologia che fa dire ad alcuni, religiosi, che il medico ed in generale l'uomo non ha alcun diritto di "uccidere" un altro uomo, o meglio di fissare una data ed un'ora precisa alla sua fine. L'altra, quella laica o certe volte "laicista", verso la quale io propengo di più, che rischia però, a mio vedere, di voler dare necessariamente un parametro che sia uguale per tutti, in tutti i casi e soprattutto in questo!
Non è facile, per lo Stato arrivare ad una sintesi!
Quando si discusse sull'introduzione dell'interruzione di gravidanza anche allora si fronteggiavano le due visioni. C'era e c'è chi considera già lo zigote come una forma di vita indipendente, quindi con uguali diritti che cautelano la vita delle persone, c'era chi invece sosteneva che il feto non avesse alcun diritto di esser cautelato, fino al giorno della nascita. Si arrivò ad individuare, in Italia, il 180° giorno dal concepimento come la soglia discriminante fra i 2.
Naturalmente, l'aborto non è stato l'unico tema su cui si sono fronteggiate le 2 diverse visioni della vita. Lo sono state, e lo sono ancora, il divorzio, la fecondazione assistita, i rapporti non matrimoniali, e, nn ultima, l'eutanasia.
In questo però ci vedo un rischio! Sono d'accordo con voi quando parlate di scelta individuale. Io stesso, quando penso a come mi comporterei se dovessi scegliere su qualcosa del genere, sia sulla mia che sulla pelle degli altri, proprio non riesco ad arrivare ad una conclusione...
Anch'io, come la Fra, devo concludere senza dare alcuna risposta!

Anonimo ha detto...

per una scelta individuale è necessario però avere la possibilità di scegliere, no?
io credo che la libertà individuale non vada mai violata, da nessuna ideologia, e il laico è per definizione scevro da dogmi ed ideologie imposte; come medici, dovremo essere pronti ad accettare chi intende la vita in modo diverso da noi, e ad assecondarne le inclinazioni se questo facesse tendere alla loro "felicità". Credo fermamente che il punto di vista laico lasci aperta questa possibilità, e non sono d'accordo quando si parla di ideologia laicista: se c'è qualcosa che il laico non vuole fare è proprio dare un parametro uguale per tutti!

Anonimo ha detto...

Proprio per questo parlavo di "rischio". Se la laicità si ferma ad affermare il principio della libertà individuale che si ferma quando inizia quella dell'altro, allora sono d'accordo anch'io. L'unica cosa che volevo affermare era che l'eutanasia non è come tutti gli altri temi sulle quali le 2 visioni della vita si sono confrontate. L'eutanasia è un problema molto più delicato.
Credo comunque che dei parametri uguali per tutti ci debbano essere! Questi parametri si chiamano LEGGI, parametri che dovrebbero essere uguali per tutti!
Anche l'eutanasia, se vuole esistere, ha bisogno d'essere regolamentata...

Anonimo ha detto...

vi seguo pure io, congratulazioni, un saluto all'amico in comune: francesco.... http://fanclubsbriciolina.ilcannocchiale.it/

Anonimo ha detto...

Chi sarebbe il mio amico in comune anonimo?:-)

Anonimo ha detto...

Sarei io Minardi conosciuto con vari pseudonimi tipo: Mingozzi, Mino, Minfiardi ecc... Una salutone a tutti e tantissimi complimenti!!! P.s. appena ho un attimo di tempo posterò qualcosa anche io ma data l'importanza e la complessità degli argomenti trattati vorrei scrive qualcosa conla dovuta calma ;-)